1997: Jena Plissken cerca di fuggire da New York. Nello stesso anno Gabriele Salvatores prova a far evadere il suo cinema dalle abitudini cinematografiche di uno strambo Paese a forma di scarpa, una fuga solitaria, visto che vent’anni dopo nessuno ha ancora provato ad imitarlo. La storia del cinema lo insegna, appena un regista manda a segno il grande titolo, quello che mette il suo nome sulla mappa geografica, apriti cielo perché può succedere di tutto! Di solito con la fama e un budget all’altezza la tentazione è quasi sempre quella di portare in scena il film della vita, quell’idea ambiziosa inseguita da tempo, considerando che Puerto Escondido (1992) e Sud (1993) erano già in produzione, se non proprio in sala, Nirvana è il titolo con cui Gabriele Salvatores ha voluto giocarsi il tutto per tutto, dopo l’oscar di Mediterraneo (1991), ed è qui che tocca fare una piccola deviazione, restate connessi angeli, facile che si ballerà un po’.

Il Cyberpunk è una corrente letteraria che pochi davvero conoscono, ammettiamolo, la parola è clamorosamente figa, forse per questo l’abbiamo sentita utilizzare a caso per trent’anni, ma visto che nessuno vuole stare qui a leggere un cretino come me che fa il professore (senza avere alcun titolo) vi faccio una domanda: lo avete letto Neuromante (1984) di William Gibson? Lo avete letto prima, oppure dopo aver visto Blade Runner (1982) e Matrix (1999)? La faccenda ha il suo peso, perché secondo la mia esperienza, pochi hanno amato alla follia il libro di Gibson fin dalla prima lettura, si fatica a calarsi nel mondo di Hacker dagli strambi nomi e connessioni alla rete, molto più complesse di qualunque quindicenne con uno smartphone. La leggenda vuole che lo stesso Gibson, seduto in sala a vedere Blade Runner, s’incazzò due righe perché il film gli bruciava un paio di idee buone che lui aveva già buttato giù per il suo romanzo (storia vera), ma il film di Ridley Scott poi svoltava andando per i fatti suoi, “tagliando” (passatemi l’espressione) il Cyberpunk con qualcosa di più consolidato, nel suo caso il Noir, perché il Cyberpunk puro può darti alla testa e farti flippare. Si dice ancora flippare? Vabbè, passatemi l’espressione, visto che il film ormai ha una certa età e anche io, sto seguendo la stessa china. Matrix? Due idee da Gibson e poi sotto a rifare con cavi e schermo verde i salti e i tipi che sparano con un’automatica per ogni mano che hanno reso grande il cinema di John Woo, con l’aggiunta magari di un po’ di «Conosco il Kung-fu», un altro modo per “tagliare” il Cyberpunk, questa volta con le arti marziali per renderlo più sniffabile, iniettabile e digeribile per il pubblico.

Invece quel matto di Italiano cosa fa? Pensa di fare un film Cyberpunk vero, come se quei due miei pezzi di cuore che rispondono ai nomi di Johnny Mnemonic e Strange Days non fossero usciti due anni prima raccogliendo risate al botteghino. Nel 1997 girava roba buona, perché Luc Besson nello stesso anno pensava di rendere omaggio alla fantascienza di Moebius, girando Il quinto elemento. Una battaglia non proprio ad armi pari, visto che il Francese disponeva di tipo cento volte i soldi di Salvatores per farlo, quindi mentre uno arruolava Bruce Willis nel pieno della sua fama, l’altro doveva accontentarsi dell’ex Immortale Christopher Lambert. Se uno si giocava la sua (allora) moglie, la bellissima e svestitissima Milla Jovovich, Salvatores doveva praticare lo Zen e l’arte di arrangiarsi con un altrettanto discinta Stefania Rocca (in una scena che TUTTI ricorderete, non fate i santerellini con me), un’ironica e sensuale Amanda Sandrelli, ma soprattutto la cricca di comici che da sempre popolano i suoi film. Ma mentre Besson cercava di ricordare a tutti che i Francesi sono i veri Americani del mondo, Gabriele Salvatores tentava l’impossibile, il colpo matto, il tiro da tre punti da nove dieci metri: fare un film Cyberpunk in uno strambo Paese a forma di scarpa. Ancora me li ricordo i critici seri, quelli con la pipa e gli occhiali, che correvano affannati a rassicurare che no, è ancora lui! Quello dell’Oscar, calma! Calma! Caaaaaalma!

Ed in effetti sì, oltre alle facce prese dai suoi film, ci sono tante tematiche care a Gabriele Salvatores in Nirvana: la fuga dal passato, la ricerca della felicità, a ben guardare c’è anche Marrakech («Seratina trasgressiva a Marrakech, eh?») e Diego Abatantuono che fa il quasi serio, quello non manca mai. Quello che manca a Salvatores, per me, non è certo l’abitudine tutta italiana di guardare gli altri Paesi solo per criticare, quella per fortuna è una (cattiva) abitudine che il nostro non ha, ecco fosse un po’ più bravo a creare dell’iconografia sua, nuova per davvero, sarebbe stato tutto più facile, invece dopo Nirvana lo abbiamo visto provare a “Tarantineggiare” (Amnèsia), scimmiottare se non proprio copiare Wes Anderson (Happy Family) e cedere anche alle supercalzamaglie (Il ragazzo invisibile, primo e secondo estratto). Nirvana è incredibilmente derivativo, lo è quando Gabriele Salvatores paga il debito d’onore Philip K. Dick e Ridley Scott e rifà con mezzi propri i cartelloni pubblicitari animati di Blade Runner, utilizzando, però, un’irriconoscibile Luisa Corna trasformata in una linguacciuta dea Kali, da sempre il simbolo di questo film e della sua filosofia. (Nota a margine: se più o meno siete della mia leva o poco più, Luisa Corna ha dato una rimescolata di carte anche ai vostri di ormoni, vale il discorso della Rocca (ho detto ROCCA!) fatto lassù, non provateci con me).

Se futuro Cyberpunk dev’essere, non possono mancare gli Hacker dai nomi bizzarri (il migliore? John Gandhi Simpson nome quasi da personaggi Carpenteriano) e i ristoranti orientali dove si mangiano i “Noodles” con qualcuno che ti alita sul collo (letteralmente), tutta roba che fa subito Gibson, William non Mel. Non piove come un Blade Runner, al massimo nevica visto che manca poco a Natale, ma il protagonista malinconico con la voce fuori campo non manca, niente auto volanti perché il massimo produttore di automobili italico (Fix It Again Tony!) ci ha insegnato con i suoi modelli a non montarci la testa, il massimo è un taxista che ti porta la droga che si chiama Corvo Rosso e non ha più lo scalpo visto che è pettinato come Claudio Bisio.

Il nostro malinconico protagonista che in casa litiga con una specie di Alexa (ma molto prima di Amazon, lasciatemi l’icona aperta su questo che più avanti ci torniamo) è Jimi, interpretato dalla mono espressione di Christopher Lambert. Jimi programma videogiochi, quindi è quasi una rockstar per la Okosama Starr che da lui si aspetta la sua nuova meraviglia, Nirvana, un gioco dove puoi comandare il personaggio di Solo (nomen omen) come se fosse Lara Croft senza le poppe, anche perché Diego Abatantuono in magliettina e shorts, magari anche no, grazie. Jimi si strugge per la perdita dell’amata Lisa (Emmanuelle Seigner senza Roman Polański in circolazione) scomparsa ormai da tempo, ma la svolta arriva quando un virus infetta “Nirvana” e regala il libero arbitrio a Solo che, improvvisamente, realizza di essere il protagonista di un videogioco, costretto a morire e ricominciare da capo, come nel fottuto giorno della Marmotta. Stanco di fare il Bill Murray della situazione, Solo prega il suo Creatore di fare qualcosa (sul fatto che nessuno si curi che un virus abbia trasformato “Laro Croft” nella prima intelligenza artificiale autonoma e dotata di sentimenti della storia non so decidermi se si tratta di uno svarione clamoroso di Salvatores (autore del soggetto), oppure un MacGuffin utilizzato così così, uno di quelli che oggi in rete verrebbe etichettato come: «Un buco di sceneggiatura! Vergogna! Cagata! Buuuu»). Nel 2022 sarà anche più facile connettersi in rete, ma è un posto molto più pericoloso di quanto credeva Salvatores. Nel tentativo di trovare un modo per cancellare “Nirvana” dai server della Okosama Starr, liberare Solo, trovare la sua ex e magari tirar su anche un po’ di bei soldi, mettendo le mani sui fondi neri della società, il nostro Jimi inizia un viaggio nelle zone periferiche della città, che Salvatores ci mostra passando da una stanza dall’albergo, all’atrio di un altro albergo, passando per una stanza e quando va bene una camera da letto, perché se volete le scenografie cazzute, è il film di Luc Besson che dovete guardarvi, qui siamo italiani, abbiamo ancora la vecchia Lira e tocca arrangiarci. STACCE! Oppure accontentatevi di sentire le note di “John Barleycorn (must die)” dei Traffic, in una delle poche scene all’aperto, tutte rigorosamente di notte.

Girando nei vecchi stabilimenti Alfa Romeo del quartiere Portello di Milano, Salvatores crea un futuro Gibsoniano, in cui gli hacker non avevano granché bisogno di uscire, perché di fatto erano tutti degli hikikomori chiusi nelle loro camerette, connessi in rete e con nomi strambi, sapete quelle cose strane tipo che so, Cassidy, gentaglia così. Quello diretto da Gabriele è un futuro Nippo-Italiano già vecchio, come tutto in questo strambo Paese a forma di scarpa da sempre periferia dell’Impero. È vecchio perché si rifà a un’iconografia in voga sì, ma non così tanto, perché la parola “Cyberpunk” sarebbe tornata sulla bocca di tutti solo con “Matrix” che, comunque, è arrivato due anni dopo questo film, che si chiama “Nirvana” come un gruppo di Seattle che l’ultima nota l’aveva comunque suonata nel 1994. Questo film è un “Transmetropolitan” scritto da un Italiano invece che da uno Scozzese come Warren Ellis, un futuro dopo tutti sono iperconessi, dove la mente è il software e il corpo l’hardware e per questo modificabile, espandibile e sacrificabile. Tra innesti, occhi bionici e strane porte USB piazzate sopra le sopracciglia c’è più rispetto dei personaggi pensati da William Gibson qui, che in tanti altri film che hanno sventolato alto la bandiera del Cyberpunk senza esserlo per forza davvero. Non è nemmeno un caso se poi a dare colore e spessore a questo mondo, siano più i personaggi di contorno che quel tonno di Christopher Lambert che trova un po’ di vita a finire a fare la spalla, in un improbabile “Buddy movie” sull’asse Parigi-Bari, a quello che in teoria sarebbe la spalla comica del film, ma che in realtà ruba la scena. Se mi chiedete quale sia il mio secondo film preferito di Sergio Rubini potrei avere delle serissime difficoltà a rispondervi, ma il suo personaggio in questo film non si batte. Joystick (vi rendete conto? Anche i nomi dei personaggi ormai sono datati!) è un hacker, anzi un angelo, uno di quelli capaci di volare in rete tra le sue difese, dritti dentro i database delle multinazionali che tanto odia. Ha gli occhi bionici del tipo più scarso, non ha una lira un credito e blatera robe da nerd con accento pugliese, ad un certo punto quando spiega a Jimi i rudimenti dell’essere un angelo, si lancia anche in un’improvabile versione del «Be water my friend, be water» del Maestro Bruce Lee, tanto perché a fascinazioni orientali nel film, non vogliamo farci mancare niente.

In troppi hanno etichettato “Nirvana” come una roba di provincia, fatta da qualcuno che in quel momento si sentiva la mano calda, ma stringi stringi, sempre una poverata italiana resta, buona forse per godersi un po’ di facce note del nostro cinema (e di quello di Salvatores) in ruoli che normalmente non ti aspetti, tipo Antonio Catania lo spiantato venditore di paranoia, oppure Silvio Orlando portiere di notte in un albergo indiano, credibile come Peter Sellers in Hollywood party (1968). No, la bellezza di Nirvana è proprio nel suo essere diverso, per quanto derivativo quanto volete, il fatto che sia invecchiato, poi, non fa altro che accentuare quanto sia un unicorno bianco – visto che Ridley Scott(o) aleggia su questo post –  nel panorama del nostro cinema. I monitor con il tubo catodico, le tastiere bianche, i MiniDisc tecnologia riciclata, come quella che usavano gli hacker di William Gibson, tecnologia datata, come quella di cui dobbiamo accontentarsi in uno strambo Paese a forma di scarpa, fanalino di coda per tante cose più importanti ancora oggi nel 2022, figuriamoci nel 1997.

Proprio gli attori italiani che siamo così abituati a vedere in contesti comici, qui servono a misurare quanto l’azzardo di Salvatores sia stato un bel salto nel vuoto. Ok, ci sono delle comparsate al limite del geniale, che servono a spiegare quanto sia grottesco il mondo di Nirvana, ma anche quanto noi Italiani troveremo sempre un modo di arrangiarsi e campare, i miei preferiti sono il recensore di droghe sintetiche Joker (Paolo Rossi che secondo me, in materia è ferrato) e il pacato avventore dell’albergo Bebo Storti che durante la sparatoria nel finale, esce dalla sua stanza con la doppietta urlando «STO MEDITANDO!». Ma il più azzeccato di tutti è proprio Diego Abatantuono, perché ha l’aria di chi non sa proprio quello che sta facendo che serve al personaggio di un videogioco che ha appena scoperto di “appartenere all’immaginario” per dirla alla Jack Slater. Ogni cosa che fa è comica, fuori luogo nel suo essere divertente e per questo anche molto amara quando viene ignorata dagli altri personaggi che, invece, seguono la programmazione. Fa ridere vederlo trattare con i trafficanti di organi e ancora di più disgustato quando viene minacciato con le armi al Sushi bar («Mi fa schifo il sushi… Ma no, lo mangio, fa anche bene»).

Questo strambo “Transmetropolitan” nostrano regala davvero la dimensione di quello che potrebbe succedere da questa parte della grande pozzanghera nota come oceano Atlantico, mentre di là Rick Deckard dà la caccia a Replicanti fuggiaschi e Johnny Mnemonic cerca di raggiungere Newark per scaricare le informazioni che gli sovraccaricano il cervello. Noi nel nostro strambo Paese a forma di scarpa, combattiamo una guerra tra poveri ambientata in un videogioco già vecchio e anche il finale, in cui i soldi vengono rubati ai ricchi per essere dati ai poveri, è un po’ all’Italiana, con Joystick che è d’accordo con in linea di principio, ma se poi tra i poveri ci sono anche degli stronzi pezzi di merda? Dobbiamo regalare soldi anche a loro?

Il finale è tutto in interni, qualunque altro film “Cyberpunk” conserverebbe il budget per bruciarlo tutto nella scena finale un trionfo di grafica computerizzata per mostrare l’interno della rete che qui, invece, semplicemente manca. Il volo dell’angelo improvvisato Jimi è immaginato, al pari di quando noi possiamo immaginarci il funzionamento di un router oppure di un computer, quello che vediamo sono stanze e corridoi, porte da aprire come in un videogioco e se gli Americani cancellerebbero Nirvana con una clamorosa esplosione, noi lo facciamo con il cancellino, “sporchi di gesso alla lavagna, con quella faccia di chi sembra che s’impegna”, se mi concedete la citazione ardita.

Vi ero debitore di un’icona lasciata aperta, la chiudiamo subito: le fascinazioni Indiane e orientali del film che partono dal titolo, passano per Luisa Corna e arrivano fino ai vari quartieri della città, possono sembrare una cazzabubbola messa dentro da uno abbastanza fresco di Oscar per darsi un tono, ma i parallelismi tra Jimi e Solo non mancano. Uno è un videogioco che ripete la sua vita dentro quattro stanze, prendendo ordini dalla voce del giocatore che lo comanda, l’altro quando facciamo la sua conoscenza a inizio film, è chiuso in una stanza a prendere ordini dal computer di casa che insiste perché lui faccia il bagno. Le vite di Solo terminano tutte quando qualcuno gli spara, solo per ricominciare da capo, con ogni volta più rassegnazione, Jimi, invece, a fine film è minacciato da pistole e il sospetto serpeggia, anche se nessuno si chiede «Siamo ancora nel gioco?» come succedeva in eXistenZ (1999) tanto per citare un film davvero Cyberpunk che non viene mai chiamato con questo nome.

Insomma: non me la sento proprio di criticare Gabriele Salvatores per aver provato a portare il nostro (e il suo cinema) così lontano da casa, restando comunque così vicino, l’unica cosa che posso davvero criticargli e di non aver perseverato. Io, invece, cari angeli, smetto di infestare questa pagine e libero le frequenze di Malastrana VHS dalla mia nefasta presenza.

Ci vediamo sulla rete (Cit.)

 

Cassidy Plissken

TRAILER

CAST & CREW

Anno: 1997

Regia: Gabriele Salvatores

Sceneggiatura: Gabriele Salvatores, Pino Cacucci, Gloria Corica

Intepreti: Christopher Lambert, Diego Abatantuono, Stefania Rocca, Emmanuelle Seigner, Sergio Rubini, Gigio Alberti, Claudio Bisio

Durata: 111 min.

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Commenti

  • Iuri Vit

    Sono d'accordo con tutto. Amo questo film, nonostante i suoi problemi derivanti dal budget e, secondo me, dalle idee non chiarissime di Salvatores. Venticinque anni dopo mi viene da dire che poteva giocarsela diversamente, con una storia che si prendesse meno sul serio e giocasse con toni più leggeri. Però il Salva è un regista ambizioso e fa bene a giocarsi sempre la carta più alta del mazzo, anche quando sbaglia il segno. Sono troppo pochi quelli che fanno come lui. Purtroppo.

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