Arriva il momento, prima o poi, di affrontare le divinità e, perché no, anche i loro diretti rivali, per poter scrivere di uno dei film più famosi della storia del cinema. Sembra quasi un dovere morale iniziare a trattare questo film partendo da una nota personale: spero non mi accuserete di sacrilegio se vi dico che L’esorcista non è il mio film preferito di William Friedkin, e a ben guardare non è nemmeno il mio horror del cuore a tema demoniaco con bambini. Ho sempre avuto una predilezione per Il presagio (1976), per il semplice fatto che nel film di Richard Donner il male si manifesta con certezza solo nel finale, per tutto il film potremmo star assistendo alla storia di una famiglia particolarmente sfortunata, mentre L’esorcista per lunghi tratti sembra uno spot a favore della Chiesa cattolica, ma questi sono gusti personali, quindi del tutto sindacabili. Quello che resta sono i fatti e tenendo conto di quelli il film di Billy Friedkin è stato una bomba nucleare sganciata sulla cultura popolare: dal 1973 non esiste un singolo film di esorcismo occidentale senza una ragazzina legata a un letto, teste che ruotano nella direzione sbagliata e vomiti verdi, una capacità di colpire l’immaginario che non si è limitata alla settima arte. A volte mi sarebbe piaciuto essere uno di quegli spettatori che videro il film in sala allora, anche solo per capire come poteva essere potente il cinema quando davvero era ancora il principale mezzo per colpire l’immaginario del pubblico.

Quanti di voi sono cresciuti con un genitore, una zia o un amico di famiglia che vi ha raccontato di quanto fosse stato terrificante vedere questo film in sala nel 1973? Su le mani, lo so che siete in tanti. Perché The Exorcist è uno di quei film che ha aggredito con violenza belluina non solo le cornee e le coronarie degli spettatori in sala, ma ha rifilato stilettate anche a luoghi idealmente sicuri come il nido famigliare, la religione e, a ben guardare, anche a più di un tabù. Le generazioni successive sono cresciute nel mito di questo film in grado di sconvolgere il pubblico dell’epoca e per molti l’opera di Friedkin è diventata una di quelle “prove di maturità” da superare. Tutti noi ricordiamo la prima volta che abbiamo visto L’esorcista, qualcuno avrà riso delle parolacce (accentuate dal doppiaggio italiano), una reazione naturale per un film così famoso ed epocale, che ha la capacità di andare sotto pelle al pubblico, e che a differenza di quello di Dick Donner mette in chiaro fin da subito, da quel prologo così efficace ambientato in Iraq, che il male esiste ed è un tipo di male che solo un ragazzo timorato di Dio e profondamente credente come William Friedkin poteva raccontare in questo modo. Ma andiamo per gradi.

Un mese prima dell’uscita nelle sale di Il braccio violento della legge (1971), il nostro Billy aveva un po’ di tempo libero nella sua stanza d’albergo e visto che Instagram non era ancora stato inventato, decise di riempire il tempo prima della cena alla vecchia maniera, leggendo un bel libro che gli era stato consegnato tempi prima a mano da un altro William, lo scrittore Blatty colpito dall’onestà con cui Friedkin non le aveva mandate a dire a Blake Edwards sulla sua sceneggiatura di Peter Gunn. Il libro s’intitolava “L’Esorcista”, ispirato da una vera (o presunta tale, per lo meno dalla Chiesa) storia di esorcismo, che se avete mai letto ve lo consiglio caldamente, basta quel prologo così malsano per restare incollati fino all’ultima pagina, ed è proprio quello che successe a Friedkin, che annullò la cena per terminare la storia della bambina posseduta da un demone. Con San Francisco a fare da sfondo alla sua camera d’albergo, il nostro Billy (regista) telefonò entusiasta all’altro Billy (scrittore) che interruppe bruscamente il fiume in piena di elogi per dire a Friedkin: «Billy posseggo i diritti sull’adattamento cinematografico, sarò produttore e sceneggiatore, volevo solo sapere se sei interessato a dirigerlo» (storia vera).

La Warner Brothers non aveva intenzione di affidare a Friedkin il film, provarono a proporlo a Stanley Kubrick (no secco: non lavoro su soggetti non scritti da me), Arthur Penn (No, ho già fatto “Gangster Story” basta film violenti) e persino Mike Nichols. Per convincere Billy Blatty gli fecero vedere anche il primo montaggio di I cowboys (1972) per provare ad affidare il compito a Mark Rydell, ma dopo il successo al botteghino e la presa di posizione di Blatty, nessuno poteva mettersi tra Hurricane Billy e la regia di L’esorcista e state pur tranquilli che il testardo regista di Chicago ha combattuto per ogni singolo fotogramma di questo film. Friedkin ha più volte affermato, anche nel bel documentario “Leap of faith” del 2019 (molto consigliato se volete approfondire la genesi di questo classico) che era sicuro che lui e l’altro Billy sarebbero stati licenziati, eppure con la sicurezza di chi sapeva di essere l’uomo giusto affidato al film giusto, il regista di Chicago non fece un passo indietro, ad esempio quando William Blatty gli consegnò la prima sceneggiatura, Hurricane Billy con la stessa spigliatezza con cui aveva detto di no a Blake Edwards, fece reintegrare il prologo ambientato in Iraq, perché sapeva che quello era l’inizio della lotta contro il male di padre Lankester Merrin e per girarla avrebbe fatto di tutto, anche trattare di persona con l’ambasciatore iracheno, pur di ottenere il visto per girare con una troupe americana poco fuori l’attuale Mosul, malgrado si potesse lavorare solo dalle sette del mattino alle undici, visto che poi il termometro riportava 54 gradi e la sabbia del deserto danneggiava le macchine da presa (storia vera). Quando la statua del demone Pazuzu, persa dalla dogana e spedita per errore in Australia, finalmente arrivò in Iraq, venne ricoperta di pezzi di carne secca per girare la breve scena dei cani che si sbranano sotto di essa, il tutto mentre le popolazioni locali cominciarono a credere che gli Yankee venerassero il demonio. Insomma quando dico che Friedkin era pronto a tutto, intendo anche questo.

Una volta definita la sceneggiatura, però, bisognava trovare gli attori giusti, e il nostro Billy dovette rinunciare a Audrey Hepburn, che era disponibile ma voleva girare a Roma. Friedkin, che tra le fila dei suoi fidati tecnici non aveva nessuno che parlasse una parola di Italiano, la salutò gentilmente e poi fece quadrato attorno a Ellen Burstyn, che non conosceva personalmente, ma che ritenne perfetta per il ruolo della madre di Regan, un’attrice atea che pur di salvare sua figlia dalla più orribile delle situazioni, si aprirà anche al concetto di maligno, perché tra un crocifisso usato in modo improprio e della zuppa di piselli utilizzata per simulare il vomito verde, L’esorcista parla di questo: personaggi che si amano così tanto da essere pronti ad affrontare l’orrore, ma soprattutto parla di sacrifico, anche reale, considerando che Friedkin, pur di avere gli attori migliori, non si fermò davanti a nulla.

Ad esempio, Stacy Keach era già stato messo sotto contratto per il ruolo chiave di padre Damien Karras (a mio avviso il vero protagonista del film, lasciatemi l’icona aperta), quando Friedkin ricevette una telefonata da una faccia interessante che aveva lavorato in spettacoli off-Broadway, Jason Miller. L’attore aveva letto il copione e, per trascorsi personali anche tormentati, non solo pensava di poter essere Padre Karras, lui sapeva di esserlo. Assecondando controvoglia la folle richiesta, il regista volò fino a New York per fare un provino al volo all’attore: con una sola porzione di dialogo della scena in cui la madre di Regan chiede aiuto a padre Karras, Miller convinse il regista, che finì a fare a testate con la Warner pur di averlo a bordo. Risultato finale? Stacy Keach pagato per intero per non comparire nel film e Jason Miller dritto nella storia del cinema. Sfido chiunque di voi a dirmi il titolo del secondo film più famoso di Miller (dire L’esorcista III non vale, troppo facile), perché c’era della predestinazione per chi crede a questo genere di cose, di mio preferisco affidarmi al fiuto e alla testa dura di Friedkin e dello stesso Miller.

L’attore feticcio di Bergman, Max von Sydow, venne scelto e poi truccato in modo tale da risultare più vecchio della sua effettiva età dal maestro del trucco Dick Smith (con il suo assistente dell’epoca Rick Baker, scusate se è poco), responsabile anche della progressiva trasformazione di Regan in un essere sempre giù grottesco e sfregiato da tagli e ferite autoinflitte: buona parte della riuscita visiva del film è merito anche del trucco, capace di andare di pari passo con la discesa all’inferno dell’anima della povera Regan.

Ma è inutile girarci attorno: Mike Nichols rifiutò la regia del film perché sapeva che trovare una dodicenne credibile per un ruolo così complesso e controverso era impossibile. Billy Friedkin da giocatore di basket sapeva che non è finita finché l’arbitro non fischia e fece il provino a centinaia di candidate, prima di imbattersi nella rappresentazione stessa dell’innocenza: direttamente dal Connecticut mamma Elinore Blair accompagnò sua figlia Linda al colloquio con il regista Il dialogo che ne seguì ve lo riporto per intero perché è più cinematografico di tanti film che abbiamo visto: «Sai di cosa parla l’esorcista?», «Beh, è la storia di una ragazzina che viene posseduta dal demonio e fa un mucchio di cose brutte», «Che tipo di cose brutte?», «Spinge un uomo fuori dalla finestra, picchia sua madre e si masturba con un crocefisso», «Lo sai che cosa significa?», «Che cosa?», «Masturbarsi», «È come fare le seghe, no?», «L’hai mai fatto?», «Certo, perché tu no?». William Friedkin aveva appena trovato la sua Regan (storia vera).

Linda Blair è stata marchiata a fuoco da questo film, la sua prova è straordinaria perché all’inizio del film risulta dolcissima, la figlia dei sogni e salvarla dall’orrore in cui è sprofondata diventa un imperativo morale per tutti, anche per noi spettatori che ci leghiamo mani e piedi alla vicenda come Regan al letto della sua camera. Ma oltre al trucco progressivamente più spaventoso di Dick Smith (tre ore al giorno per trasformare Linda Blair nel demone Pazuzu e un’ora per liberarla dalle protesi), un altro elemento chiave è stata la voce del personaggio. Anche se sulla fama di film “maledetto” è stato detto e scritto di tutto, gli incidenti non sono effettivamente mancati: un set è stato completamente raso al suolo dalle fiamme, il fratello di Max von Sydow è morto mentre l’attore svedese stava recitando e così la nonna di Linda Blair, mentre il figlio piccolo di Jason Miller fu colpito da una moto e a lungo le sue condizioni furono considerate molto critiche prima di riprendersi, ma questo fa parte del mito e forse anche della suggestione creata attorno al film che preme a tavoletta sul pedale delle zone d’ombra, quelle in cui si sono sempre mossi i personaggi di Friedkin, e che negli anni ha fatto sollevare un sopracciglio anche ai più scettici. Il regista voleva che il suo demone sembrasse maschile e femminile allo stesso tempo, e l’unica al mondo con quella capacità era Mercedes McCambridge, la donna che Orson Welles aveva definito la più grande attrice di radiodrammi della storia che, però, non solo non lavorava più da parecchio tempo, ma stava anche affrontando i suoi demoni personali. Quando Bill le propose il ruolo lei pretese due preti per assisterla dopo ogni sessione di doppiaggio, ma prima di mettersi davanti al microfono, Mercedes McCambridge si svuotava una bottiglia di quello buono, fumava come se con ci fosse un domani e buttava giù uova come Rocky prima dell’allenamento, il tutto per arrochire la voce quel tanto che bastava da renderla spaventosa. In linea di massima missione compiuta, anche se la via crucis della McCambridge non terminò così, prima l’attrice non volle farsi accreditare come doppiatrice, forse per evitare le polemiche o per via della sua spiccata vocazione religiosa, poi attaccò brutalmente Friedkin alla prima quando non vide il suo nome tra i titoli di coda del film. Insomma non proprio il set più tranquillo del mondo, ecco.

Si tratta di iconografia, L’esorcista ne ha sfornata a quintali, questo è il film che ha sdoganato la mania della tavole Ouija, le volgarità uscite dalla bocca di Regan sono finite stampate su centinaia di magliette, anche se nella versione doppiata ci hanno dato dentro molto più che in originale («The sow is mine», la scrofa è mia, in Italiano è reso in maniera ben più sboccata), il quadro esposto al Moma di New York, “L’impero delle luci II” di René Magritte, divenne la principale ispirazione per Friedkin per la celebre locandina del film, quella con cui il regista scongiurò la proposta della Warner, una mano che impugnava un crocefisso sporco di sangue e la frase di lancio “In nome di Dio qualcuno la aiuti” (storia vera). In tutta questa iconografia non poteva mancare la musica: disperato e in cerca del tema musicale giusto Hurricane Billy affidò il compito allo storico compositore Bernard Herrmann che con spocchia malcelata ignorò tutte le indicazioni del regista, che quando sentì parlare di utilizzare un organo da chiesa per la colonna sonora (si poteva fare scelta più banale? Penso di no), strinse la mano ad Herrmann e poi si mise a spulciare cassette con campioni di basi inutilizzate.Quando sentì i primi dieci secondi di Tubular Bells del polistrumentista Mike Oldfield, capì di aver trovato il tema musicale perfetto per il suo sconto tra il bene e il male, ancora oggi uno dei temi horror più ricordati di sempre, almeno al pari di quelli usati da Argento e Carpenter nei loro capolavori.

Sul set Friedkin non ha preso prigionieri, per ottenere il massimo dall’ateo Max von Sydow, Billy era disposto a far venire giù Bergman dalla Svezia, e gli bastò chiedere all’attore di interpretare padre Merrin non come uno stregone con i poteri, ma come un uomo in lotta con il male (storia vera). Non andò altrettanto liscia con Bill O’Malley, per l’intensa scena dell’estrema unzione era necessario che l’attore piangesse, per la seconda volta in carriera Hurricane Billy utilizzò la tecnica del suo eroe cinematografico Henri-Georges Clouzot: «Bill io so che ce la puoi fare, mi vuoi bene?», «Sì», «Dillo», «Ti voglio bene Billy, lo sai», BOOM! Schiaffone a mano aperta sul volto di O’Malley che girò la scena nel silenzio totale. L’avete vista perché è finita del montaggio finale del film ed è anche la chiusura ideale della storia di padre Karras, su cui vi ero debitore di un’icona lasciata aperta, che chiudo subito, anche se ci vorrà un lungo giro di parole, vi avviso.

Ve l’ho detto che io per questo post verrò accusato di sacrilegio, ma dopo anni di insistenza e chiacchiere tra amici dei due Billy, nel 2000 Friedkin cedette alle pressioni di Blatty facendo uscire la versione estesa del film, quella da 132 minuti. Posso dirlo? Una versione della pellicola che io trovo orribile e inutile. Nel 1973 Hurricane Billy aveva deciso di mostrare l’iconico e spaventoso volto del demone Pazuzu una volta sola, rendendolo uno dei fotogrammi che ha terrorizzato più persone, forse dell’intera storia del cinema. Aggiungere faccine di Pazuzu in digitale un po’ ovunque nella versione del 2000 mi è sembrato un modo per depotenziare l’efficacia di un film che ha saputo creare iconografia anche con le scene tagliate. 

La famigerata discesa dalle scale con la “camminata a ragno”, tagliata nel 1973 perché non si poteva con la tecnologia del tempo cancellare i fili che sostenevano la controfigura, è diventata la scena mai vista più citata del genere horror, idealmente ha tenuto a battesimo (tanto per stare in tema) molto J-Horror e tutte le possedute nei film occidentali, una legione di contorsioniste in grado di scalare le pareti come Spider-Man. Comprendo perché Billy abbia voluto riprendersi la paternità di quella scena che, però, trovo ancora più inutile delle apparizioni digitali di Pazuzu anche per motivi logistici: come fai a richiudere nella sua stanza una posseduta fuggita in quel modo? Anche perché a ben guardarlo L’esorcista è un dramma ambientato in un’unica stanza, una tecnica che Friedkin dominava da lungo tempo ormai.

No, la versione del 2000 esiste principalmente per accontentare Blatty, che temeva che il finale così nero del film fosse percepito come un peccato capitale di Padre Karras che si suicida gettandosi dalla finestra. Fin dalla prima volta che vidi L’esorcista non ho mai avuto la percezione di aver assistito a un peccato capitale, forse perché sono più ateo della mamma di Regan all’inizio del film, o forse solo perché fin da quella prima visione, per me l’obiettivo del demone non era mai stato la dolce e tenera Regan MacNeil, un mezzo per arrivare a quello che per certi versi penso sia il vero protagonista del film.

Cosa vi dico sempre delle scene in metropolitana? Ogni grande film dovrebbe averne una. L’esorcista ne ha due: quella del (vero) senzatetto che chiede qualche spicciolo a Karras e poi la singola scena che trovo più spaventosa di tutto il film, più delle teste che girano, più della chiacchierata scena del crocefisso, delle lievitazioni e del vomito verde. Padre Karras fa visita a sua madre, lasciata a morire in un ospizio per poveri, la donna con la sua voce lamentosa e piangente chiede al figlio «Perché mi hai fatto questo, Dimmy? Perché?», la voce della madre diventa la tortura della goccia sul senso di colpa di un uomo che ha quasi perso la sua fede in Dio, e che dovrà ritrovarla nel modo più drammatico possibile. Il centro morale dell’esorcista sta nel parallelismo tra la madre di Karras, lasciata sola a morire in un letto, e Regan. La scena chiave di L’esorcista è quella in cui Padre Karras, in sogno, vede sua madre salire le scale dell’uscita della metropolitana (una simbolica ascensione), dire qualcosa al figlio, che nel traffico e per la distanza non riuscirà mai a capire, per poi voltarsi, scendendo quelle scale, e anche qui impossibile non vederci qualcosa di metaforico.

Per quello che mi riguarda quella è la scena più spaventosa del film, quella chiave con cui William Friedkin ci inchioda tutti, il miglior modo possibile di utilizzare il cinema per raccontare il senso di colpa che è alla base di tutta la religione cattolica e che spingerà padre Karras a sacrificarsi per liberare Regan. Forse era davvero lui l’obiettivo di Pazuzu e, in ogni caso, aggiungere un dialogo leggero tra O’Malley e Lee J. Cobb nei pressi di quella maledetta (e anche lei, iconica) scalinata, non può certo alleviare, come sperava Blatty, un film che solo un ragazzo timorato di Dio come Friedkin poteva raccontare in modo così efficace, scavando nelle luci e nelle ombre anche della religione che, poi, è quella zona oscura dove il cinema di Hurricane Billy ha sempre brillato di più. Dicono che è prima dell’alba che la notte è più buia, vale la pena affrontare l’orrore per vedere la luce (il bacio di gratitudine di Regan sulla guancia del prete),  e nessuno ha mai raccontato lo scontro tra il buio e la luce, il bene e il male, utilizzando le armi del cinema di genere meglio di quanto abbia fatto William Friedkin

 

Cassidy Plissken

TRAILER

INFOBOX

Titolo originale: The Exorcist

Anno: 1973

Regia: William Friedkin

Sceneggiatura: William Peter Blatty

Interpreti: Linda Blair, Ellen Burstyn, Jason Miller, Max Von Sydow, Lee J. Cobb, Kitty Winn

Durata: 122 min / 132 (versione integrale)

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