A classic horror story

Elisa deve tornare a casa dalla famiglia per interrompere, dietro le pressioni della madre, una gravidanza indesiderata. Per farlo, salta a bordo di un camper insieme ad altri carpooler: i fidanzati Sofia e Mark, il medico Riccardo e il conducente del camper nonché aspirante regista Fabrizio. Insieme, i cinque attraversano le strade della Calabria costeggiate da fitti boschi finché una notte, impegnati a schivare un animale morente nel bel mezzo della strada, si schiantano contro un albero. Al loro risveglio, i cinque si ritrovano in una radura spianata dagli alberi, che la delimitano da lontano, con un’inquietante casa di legno al centro. Della strada che stavano percorrendo, nessuna traccia. Il gruppo male assortito prenderà quindi riparo all’interno della strana casa, tuttavia questo sarà per loro l’inizio di una serie di morti brutali, eseguite,  con ferocia da esseri orribili e soprannaturali, Osso, Mastrosso e Carcagnosso.

Due anni fa, in un terreno cinematografico, come quello italiano, arido non solo di talenti ma anche di idee, aveva fatto capolino, nei nostri cinema, un horror interessante, ben scritto e capace di sorprendere anche nel suo low budget, The nest (Il nido). Merito di Roberto De Feo, regista con una grinta sorprendente nel girare un prodotto che si percepiva italiano solo nella recitazione, ma dalla regia virtuosa, poco televisiva, simile come impatto nel panorama italiano del terrore ai classici diretti (o prodotti) da Pupi Avati negli anni 80/90, da Zeder a La stanza accanto di Fabrizio Laurenti. De Feo si era sicuramente fatto notare e il film riuscì nel miracolo di fare breccia tra gli appassionati: The nest era un’opera non perfetta, ma confezionata bene davvero, una delle cose migliori nel cinema nostrano da tempo immemore.

A classic horror story è sbarcato il 14 luglio di questo apocalittico 2021 direttamente sulla piattaforma Netflix ed è un’opera che avrebbe richiesto, grazie alla splendida fotografia di Emanuele Pasquet, lo stesso de Il nido, un’uscita cinematografica. Anche su un televisore a 60 pollici e l’impianto sonoro più all’avanguardia, il secondo horror di Roberto De Feo chiede, grida e implora una dignità da sala multiplex, con uno schermo gigante, il buio intorno e il fiato che si ferma, quella magia che una pandemia è riuscita a privarci, quelle emozioni uniche da cinemascope del secolo scorso che ci dimenticheremo a poco a poco illudendoci che ora sia meglio. Più comodo sicuro, ma il cinema, soprattutto un cinema spettacolare, pieno di carrellate, di invenzioni visive, di attori che sanno anche recitare e non solo abbaiare, meriterebbe la dignità che gli è stata preclusa, al pari dell’esplosivo e grandioso Senza rimorso di Sergio Sollima arrivato sulla concorrente Prime video.

Stavolta De Feo è affiancato alla regia dallo sceneggiatore Paolo Strippoli, alla prima prova nel lungometraggio, ma il risultato resta analogo, se non migliore, a quello di The nest: sorprendente visivamente e molto più convincente sul piano narrativo del predecessore.

Per parlare bene nel dettaglio di A classic horror story bisognerebbe fare degli spoiler, ma cercheremo di eluderli senza sottrarre nulla alla qualità della pellicola.

Come si evince dal titolo la pellicola è un omaggio al cinema horror, dai più recenti torture porn ai classici di Lucio Fulci (una scena con una punta molto ravvicinata all’occhio di un protagonista simile a Zombi 2) e al Dario Argento di Suspiria. Non si dimenticano neanche i caposaldi a stelle e strisce come il Tobe Hooper di Non aprite quella porta, il Sam Raimi de La casa 2, e il The wicked man di Robert Hardy anche nella declinazione Ari Astrer. La sirena che richiama i tre mostri, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, “dai nomi dei padri fondatori della mafia italiana”, come ci ricorda il ciarliero Fabrizio, ricorda l’analoga del videogame Silent Hill, e ovviamente la sua trasposizione filmica ad opera di Christopher Gans. La tortura ai danni di Will Merrick, nei panni di un turista straniero in terra calabra, gambe spezzate come in Misery di King/Reiner, ci riporta, nelle suggestioni, più che all’Hostel di Eli Roth, all’efficace Shadow di Federico Zampaglione, idea rafforzata dall’uso di Era una casa molto carina, canzone allegra per bambini, che si contrappone a quello de La Strada Nel Bosco, intonata da Claudio Villa, nell’horror del frontman dei Tiromancino. Certo l’idea di musica estraniante e fuori contesto in sequenze feroci non è cosa nuova e la mente vola tanto al Fulci di Non si sevizia un paperino con la Vanoni a scandire un pestaggio brutale che ai Ricchi e Poveri nella colonna sonora del sanguinoso e bellissimo Alta tensione di Alexander Aja. Nulla da rimproverare anche all’evidente deja vu, visto che non stiamo parlando solo di un film che si chiama A classic horror story ma anche di una pellicola che, sul modello di Quella casa nel bosco di Drew Goddard, gioca con gli stereotipi per raccontare una storia innovativa.

Tentativo riuscito a metà soprattutto perché il film ha il piede schiacciato sull’acceleratore, vanta un ritmo indiavolato, tanto da bruciare molte idee come l’inedita analogia tra l’Ndrangheta e il mistero ultimo della storia. Tutto bellissimo a livello concettuale, innovativo persino, ma assolutamente superficiale e inappagante. Così come la critica alla disumanizzazione della società, troppo presa dietro ai social network e ai balletti di tik tok, per empatizzare con la morte, vera e spietata, arriva fuori tempo massimo, almeno una ventina d’anni in ritardo rispetto al classico mocku My litte eye. In più la soluzione del mistero ricorda in maniera meno efficace il malato The Last Horror Film del 1982 con echi del misconosciuto ma gagliardo Mimesis: The night of living dead di Douglas Schulze del 2011.

Non pensiate però che questo infici la riuscita del film, ma bisogna essere obiettivi nei pro e nei contro.

A classic horror story ha la forza delle grandi pellicole americane, ma con la stessa inventiva dei nostri artigiani del terrore, capaci di tirare fuori da idee riciclate grandi opere. In più ha la presenza di Matilda Anna Ingrid Lutz, una delle nostre interpreti più efficaci, capace di conferire ai suoi personaggi una carica umana sorprendente. Se Alexander Aja la sprecava nel serial They Were Ten, lo stesso non capitava con Coralie Fargeat e il crudele, pittorico e surreale Revenge, incredibile risposta femminista ad un genere misogino come il rape & revenge movie. Alla Jen di quest’ultima pellicola, straziata e rinata dal fuoco rovente di una birra da due soldi, si rifanno nel finale Roberto De Feo e Paolo Strippoli. Quando la vediamo con la maschera rituale in volto che vomita vendetta e pallettoni di fucile, bellissima e disumanizzata, è proprio la Lutz del film francese a fare capolino. Il suo “Quanto parli” prima di far saltare le cervella al cattivo più insospettabile poi è da applausi popolari a scena aperta. Cinema all’ennesima potenza.

A classic horror story non calca la mano nel sangue, ma ha atmosfera e soprattutto un cuore, capace di emozionare nell’ultima scena quando lei, la ragazza che voleva abortire, sulle note di Gino Paoli, immersa nel mare, si tocca la pancia acerba. E qui, dannati De Feo e Strippoli, ci scende la lacrima.

Consigliato.

Andrea K. Lanza

 

TRAILER

CAST & CREW

A Classic Horror Story

Regia: Roberto De Feo, Paolo Strippoli

Interpreti: Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick

Durata: 95 min.

Anno: 2021

Disponibilità: Netflix

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